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La valutazione delle quote della Banca d'Italia: che cosa non torna?

Pubblicato lunedì 3 febbraio 2014

Autovalutazione gonfiata di Bankitalia, in modo da "regalare" più soldi alle banche

Una nota molto interessante di Daniela Venanzi, del Dipartimento di Economia di Roma Tre, intitolata: «La valutazione delle quote della Banca d'Italia: che cosa non torna?». E' molto tecnica, ma se tale non fosse, il discorso sarebbe meno stringente.

Daniela Venanzi: Ordinario di Finanza aziendale – Università degli Studi di Roma Tre- Dipartimento di Economia, daniela.venanzi@uniroma3.it

Non entro nel merito dell’opportunità di riformare proprietà e governance della Banca Centrale, né degli aspetti formali e sostanziali della riforma: lo hanno fatto abilmente già altri prima di me (Coltorti su FIRSTonline, e Siciliano su lavoce.info).

Voglio invece fare alcune considerazioni sui metodi e gli assunti della perizia che ne ha stimato il valore, come riportata nel sito web dell’Istituto centrale.

La prima impressione che si trae leggendo le 14 pagine del documento è la debole o assente argomentazione fornita alle scelte fatte in sede di valutazione (critica peraltro recentemente espressa anche dalla BCE). Si evidenzia che la valutazione presenta elementi di discrezionalità e incertezza (trattandosi di una stima su un arco temporale esteso e in contesto di incertezza), e tuttavia non si argomentano adeguatamente o affatto le assunzioni fatte nella scelta dei parametri del modello di valutazione adottati. Come se si rinviasse, senza dirlo esplicitamente, al principio di autorità: la valutazione è fatta da un gruppo di esperti di alto livello, sotto la supervisione della BdI, e questo basti.

Stupisce poi la miscela di elementi tecnici e politici presente nel documento: per fugare i dubbi di una valutazione pilotata dal valutato, essendo peraltro da questo avviata ed assegnata al trio di esperti, sarebbe stato consigliabile per gli esperti stendere un documento “rigorosamente tecnico”. Per esempio, una delle ragioni richiamata a supporto della necessità di revisione dell’assetto azionario della BdI risulterebbe essere quella di evitare che si dispieghino gli effetti di una legge dello stato (quella che consentirebbe un trasferimento allo stato del capitale della BdI): a parte i dubbi sulla legittimità del fine (la BdI può esplicitamente opporsi ad una norma di legge, pur se non applicata, e pur se nel farlo si avvale dell’ausilio di esperti di prim’ordine?), un’affermazione di questo tipo non può che essere frutto di una valutazione politica di opportunità. Analogamente, per supportare il favore verso il modello proprietario privato, la perizia riporta l’esempio degli USA, trascurando completamente le notevoli differenze di quel contesto rispetto a quello italiano, sia sul piano del sistema finanziario (market based vs bank based) che del quadro istituzionale e normativo (tra cui il fatto di essere paese di common law il primo e di civil law il secondo); di contro, il documento non accenna neppure minimamente a quello che fanno i maggiori paesi europei (un documento tecnico non avrebbe dovuto prescinderne), tra cui Francia e Germania, quest’ultima peraltro spesso richiamata (anche dai documenti ufficiali della BdI) come benchmark virtuoso per i paesi europei.

Ma veniamo ai dettagli tecnici della valutazione delle quote.

Di seguito alcuni degli aspetti che appaiono discutibili sul piano metodologico.

1) Si parla di “attenta selezione” dei parametri del modello DDM (Dividend Discount Model) utilizzato nella valutazione: eppure le scelte fatte di stime assegnate ai valori dei parametri usati nel modello appaiono debolmente o per nulla argomentate (cfr. allegato 3 del documento). Di seguito alcuni punti critici:

a. il calcolo del costo del capitale da applicare alla valutazione utilizza come tasso risk-free quello dei BUND tedeschi a 10 anni. L’uso del tasso dei BUND poggia (si può immaginare, visto che nessuna spiegazione viene fornita al riguardo) sull’ipotesi che solo esso sia un tasso effettivamente esente da rischio, mentre quello dei titoli di stato italiani, per esempio, conterrebbe anche una remunerazione del rischio paese; ciò che non convince è perché di utilizzi un tasso decennale, trattandosi di una valutazione che ha un orizzonte infinito. Sarebbe più sensato utilizzare tassi a orizzonte molto più lungo (esistono BUND a 30 anni), visto che la struttura per scadenza dei tassi ingloba le previsioni sull’inflazione attesa;

b. di 10 anni è anche l’arco temporale utilizzato per stimare, sulla base del passato, il tasso g di crescita dei dividendi nel primo stadio, posto pari al 5%. Perché non si ritiene necessaria alcuna correzione del tasso (che è storico) per applicarlo al futuro e soprattutto per applicarlo su orizzonti di 20 e 30 anni?

c. anche la stima del premio medio per il rischio azionario (ERP), assunto pari al 7%, apre una domanda rilevante: si fa riferimento all’area dell’euro, ma anche al premio “corrente” chiesto dagli investitori. Sembra una scelta piuttosto criticabile, visto che poi il costo del capitale, nel cui calcolo il premio viene utilizzato, è applicato per attualizzare flussi finanziari di un periodo temporale infinito. Non a caso, le best practices in tema di valutazione suggeriscono di usare stime del premio per il rischio di mercato determinate su orizzonti temporali molto estesi. Il valore corrente del premio risente del clima di incertezza degli scenari economici delle imprese, in una fase congiunturale avversa. Perché si assume che rappresenti una stima adeguata di premio medio per i futuri 50 o più anni?

d. anche poco spiegata è la scelta del beta, assunto pari a 0.4. Qui si fa riferimento alla media aritmetica (si desume) dei due beta usati rispettivamente per le azioni della BRI e della Banca Centrale svizzera. Nulla però viene detto su che valori furono usati in queste due valutazioni per le altre componenti che il CAPM (Capital Asset Pricing Model), qui adottato, utilizza per calcolare il costo del capitale: e cioè il tasso risk-free e il premio per il rischio di mercato. Che senso ha estrarre da quelle stime il beta, senza tenere conto anche dei valori utilizzati per gli altri parametri con cui il beta concorre per la stima del costo del capitale? I parametri del modello non sono indipendenti, ma piuttosto strettamente collegati, per cui il valore di uno si giustifica non per sé, ma in relazione anche agli altri parametri del modello.

e. si applica un liquidity discount del 20%, per tenere conto, cito testualmente, del “numero limitato di potenziali acquirenti delle quote”. Ma perché limitato? Gli estensori della perizia conoscono già quale sarà l’assetto proprietario riformato della BdI? La ratio dell’applicazione di uno sconto di liquidità e la relativa entità dipendono evidentemente dall’assetto proprietario scelto, dalla trasferibilità delle quote, dai requisiti richiesti per essere azionisti, ecc., che presumibilmente in sede di stesura della perizia sono ancora impregiudicati o no?

2) Particolarmente deboli appaiono anche la modalità con cui viene ricavato il range di valori e i test di robustezza di questo range. Nella stima la perizia adotta il modello a due stadi (cioè due periodi temporali, il primo di durata finita e il secondo infinita, a cui si applicano parametri differenti), differenziando i tassi di crescita dei flussi nei due periodi, un tasso g più elevato nel primo stadio e più basso nel secondo stadio. E’ piuttosto elementare far scaturire la forchetta di valori delle quote (che alla fine risulta compresa tra i 5 e 7.5 md di euro) dall’applicazione di un diverso orizzonte temporale del primo stadio (rispettivamente 20 e 30 anni), lasciando inalterati tutti gli altri parametri e non spiegando perché proprio questo (la durata del primo stadio) sia il driver di valore più importante. Ora, se si ipotizza uno scenario con una durata più lunga del primo stadio (del 50% in più) perché il tasso g applicato nel primo stadio rimarrebbe invariato rispetto all’altro scenario, pur cambiando in maniera rilevante la sua lunghezza temporale? Quali le motivazioni sottostanti all’ipotesi? Idem per il tasso applicato al secondo stadio.

3) Allargando il discorso su come si procede nella valutazione per stimare un range di valori, assumendo quindi (come è ragionevole che sia) un’ottica probabilistica e non deterministica nella stima, va detto che le best practices in tema di valutazione suggeriscono:

a.    di effettuare un’analisi di sensitività del valore stimato a modifiche probabili dei valori dei parametri da cui il valore dipende (i c.d. drivers del valore), ciò al fine di individuare quali parametri influenzano maggiormente la stima del valore e per utilizzare per questi parametri critici dei range opportuni di valori rispetto ai quali calcolare corrispondenti range di valore delle quote oggetto di valutazione; negli approcci più rigorosi, si costruiscono le distribuzioni di probabilità soggettive dei parametri da cui maggiormente è influenzato il valore, si individuano stime ottimistiche e pessimistiche equiprobabili di questi parametri, si determina il range di valore delle quote corrispondente al range tra stima ottimistica e stima pessimistica del parametro;

b. di derivare la forchetta o range di valori delle quote applicando il metodo degli scenari, cioè effettuando la stima in un certo numero di scenari plausibili, assumendo per ogni scenario un mix coerente di valori o range di valori dei parametri, ed esplicitando la interdipendenza tra tutti o almeno alcuni dei parametri

del modello. Nel documento non c’è traccia né di analisi di sensitività, né di analisi per scenari. I test di robustezza condotti appaiono risibili, perché si limitano o a modificare un parametro per volta (lasciando invariati gli altri), ovvero, a cambiarli a coppie, ma in maniera assolutamente incoerente; o peggio, variandoli in senso opposto, in modo che la variazione di uno venga controbilanciata, in maniera (verrebbe da pensare...) algebricamente pre-determinata, dalla variazione dell’altro: si veda ad esempio il caso in cui (pag.2 dell’allegato 3) si aumenta il tasso risk-free di mezzo punto percentuale e si diminuisce di un punto percentuale l’ERP, lasciando evidentemente pressoché invariato il costo del capitale, visto che i due tassi sono sommati, il secondo dopo essere stato moltiplicato per il beta (che è dello 0.4). Senza peraltro spiegare perché i due parametri dovrebbero muoversi in senso opposto e per l’entità ipotizzata.

4) Altro aspetto non spiegato è perché si utilizzi solo il metodo DDM nella valutazione (in realtà si utilizza anche una rivalutazione delle riserve potenzialmente distribuibili, ma pochi dettagli sono forniti in proposito) e non altri metodi. Per esempio, se esiste, come emerge dal documento, un certo numero di banche centrali che hanno assetto proprietario privato e quindi quote che hanno un valore di mercato, perché non provare ad individuare e misurare dei multipli su un set di comparabili, ancorando il valore del capitale proprio a qualche valore del bilancio con cui il rapporto è mediamente stabile? Tra l’altro, il metodo dei multipli potrebbe essere particolarmente adatto in questo caso, trattandosi di un business (quello degli istituti centrali) piuttosto stabile e relativamente omogeneo. La stima ottenuta con questo metodo potrebbe essere usata come strumento di validazione della stima ottenuta con il metodo DDM, ovvero come sua correzione.

5) Da ultimo non si comprende l’ultima parte del documento (il § 3), in cui sembra si voglia dimostrare la bontà della stima ottenuta, facendo tornare i conti, come in una sorta di quadratura del cerchio, nell’ipotesi di un tasso di dividendo del 6% sul valore rivalutato delle quote. Bisogna sottolineare che il procedimento è semplicemente algebrico e il conto tornerebbe comunque, qualunque fosse la stima del valore delle quote ottenuta. Infatti, si ricava il dividendo annuo e il tasso di dividendo, partendo dal valore ottenuto dalla stima e assumendo i parametri in questa stima utilizzate (costo del capitale del 4.6% e sconto di liquidità del 20%) e non viceversa, come la Tavola A3 indurrebbe a ritenere. Il tasso di dividendo del 6% (che è poi l’arrotondamento di 5.75%) non è altro che il rapporto tra il costo del capitale (nella stima assunto pari al 4.6%) e 0.8 che è il valore ridotto del liquidity discount. Della serie troviamo il padre del figlio di Noè...

6) C’è poi un elemento non di poco conto nella regola di un tasso di dividendo del 6% del valore delle quote, che il documento omette di evidenziare: ogni anno, da subito, ai detentori delle quote, nel caso che la rivalutazione delle quote fosse effettuata nella misura del livello superiore della stima, pari a circa 7.5 miliardi di euro, la BdI dovrebbe versare annualmente e per sempre un dividendo annuo di 450 milioni di euro (6% di 7.5 md di euro), ben 6 volte quanto è stato pagato nel 2013. Viene da chiedersi: perché pagare ai detentori delle quote un tasso di dividendo costante e non invece dividendi crescenti in due stadi, così come è stato ipotizzato nel modello che ha portato alla stima del valore delle quote?

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