Articolo sul Fatto Quotidiano di lunedì 21-10-2015 a pag. 15
Richiedere azioni delle Poste Italiane potrà benissimo rivelarsi un affare. Merita però dire qualcosa sull'offerta pubblica di vendita (opv) attualmente in corso, fuori dal coro dei diffusi applausi.
Per cominciare i normali risparmiatori sono trattati come investitori di second'ordine. Loro debbono chiedere le azioni al buio sul prezzo che le pagheranno, sapendo solo che potrà variare da 6 a 7,5 euro, che è bella forchetta del 25%.
Invece gli investitori istituzionali (banche, assicurazioni, fondi comuni ecc.) possono fissare un limite, sopra il quale non le compreranno. Ma non è una legge divina a imporre ciò. Basterebbe tornare alla modalità della prima tranche delle azioni Eni, quando c'erano due giorni di tempo per chiederne, dacché era noto il prezzo finale.
Va bene poi offrire condizioni un po' migliori ai dipendenti, ma va male spingerli a sottoscrivere le azioni, attingendo dal loro trattamento di fine rapporto (TFR). Esso ha infatti una funzione di risparmio previdenziale e di ammortizzatore sociale: è quindi molto inopportuno un suo utilizzo per speculazioni di Borsa. Infatti, malgrado le attuali aspettative favorevoli, nessuno garantisce che non finisca come con le azioni Finmeccanica, brutto precedente che nessuno ha ricordato.
A inizio del giugno 2000 anch'essa permise ai dipendenti del gruppo l'utilizzo del TFR per sottoscrivere azioni, col beneplacito e anzi la benedizione dei sindacati Fim, Fiom e Uilm. Pure allora le prospettive erano buone,
Così, chi nel giugno 2000 ci mise l'equivalente di 100 euro, ora se ne ritrova circa 63, conteggiati i dividendi e anche la bonus share. Significa una perdita sul 37%. Ma non basta perché, ugualmente in termini nominali e senza imposte, quei 100 euro mantenuti nel TFR, ora sarebbero circa 154. Ovvero il 145% in più.